I tedeschi in ritirata minarono e fecero saltare in aria la Torre di Berta di Sansepolcro. Oggi è il triste anniversario di quella perdita.
5 anni fa, per i 70 anni della distruzione, pubblicai nel mio blog “M’Arcordo…” uno scritto di Beppe Fanfani con un quadro di Baldino (Ubaldo) Mariucci, un cugino de Castello che voleva bene al Borgo, Baldino da allora ci ha lasciato, voglio ricordare anche lui con affetto.
Oggi ripropongo come questi due cari amici, a loro modo ci ricordarono quel tragico evento che ancora oggi, dopo 75 anni, ci accomuna nel dolore d’una tal perdita.

Libera interpretazione della distruzione della Torre di Berta in un acquerello di Baldino Mariucci. Baldino mi regalò questo quadro per il mio matrimonio.
La torre del Borgo. (Un ricordo di Beppe Fanfani nel 70° anniversario della liberazione)
C’era una volta un re. No! Né un re, e neppure un pezzo di legno.
C’era una volta un piccolo borgo della Toscana, anzi della Valtiberina, nato chissà come e per volere di chi, là dove il Tevere cominciava a riposarsi dopo gli allegri salti dell’Appennino, e si distendeva nella valle in un corso più morbido e sereno.
All’epoca dei fatti che racconto quel borgo viveva quasi tutto all’interno delle mura erette dai Medici a difesa della città e che, ai punti cardinali, si aprivano in quattro porte chiamate Porta del Castello, Porta del Ponte, Porta Romana e Porta Fiorentina.
Fuori da quelle mura il borgo aveva cominciato timidamente ad espandersi in attività imprenditoriali che all’epoca erano all’avanguardia e di esempio per tutte le altre collettività della valle che, ancora, vivevano di una economia essenzialmente agricola.
Erano sorte industrie importanti.
In quel borgo stava passando la guerra, che si portava dietro tutto ciò che di male la guerra porta sempre con sé, compresi i morti ammazzati e tutta una serie di gratuite distruzioni, che i tedeschi lasciavano nel corso della loro ritirata.
Quel piccolo borgo, come tanti altri, non aveva fatto male a nessuno. Eppure la ritirata delle truppe tedesche nel luglio del 1944 avrebbe lasciato il segno.
L’8 settembre era passato da dieci mesi, e poche cose avevano fino a quel punto scosso la monotonia di quella gente che vedeva la guerra da lontano, attraverso le lettere dei propri giovani che, volenti o nolenti, erano dovuti andare chi in Africa, chi in Grecia, chi in Russia ad inseguire sogni di impero che la follia di quei tempi riusciva a far prevalere sulla ragione.
Solo le mamme che ogni giorno andavano nelle molte chiese a pregare per i loro figli che non erano tornati, avevano chiara la differenza tra le parole roboanti, i manifesti inneggianti alla vittoria, e le sofferenze della propria e della altrui carne.
Il piccolo Borgo non era restato però estraneo all’ incertezza di quei mesi, al fuggi fuggi generale delle gerarchie di comando, al disorientamento che era seguìto alla caduta del fascismo, all’armistizio ed all’8 settembre e, man mano che le truppe tedesche si avvicinavano risalendo l’Italia nella loro ritirata, la gente se ne era andata.
Quasi tutti erano sfollati, ed in città erano restati solo quelli che non avevano potuto allontanarsi per un motivo o per l’altro. Ma la paura li teneva nascosti, e solo quando attorno pareva non esserci nessuno, si arrischiavano a metter fuori la testa. Ogni tanto qualche sfollato tornava dal Trebbio o dalla Montagna per vedere se le loro case o le loro cose eran sempre al loro posto od a cercare qualcosa da mangiare, ma scappavano via subito di nuovo.
Molti giovani, che non avevano voluto seguire la retorica della rinata repubblica sociale, si erano dati alla macchia. Molti di essi vi sarebbero restati per molti mesi, fino alla liberazione, divenendo partigiani. Altri non sarebbero più tornarti.
In quei giorni per le strade non si vedeva più nessuno, e per la prima volta la torre della piazza, senza nessuno intorno, senza una voce, senza bambini, sembrava un vecchio solo che si fosse perso.
Solo il sole le teneva compagnia e la accarezzava da tutti i lati in quel luglio senza rumori. La Torre non poteva muoversi e così, sola, non poteva più ascoltare i discorsi della gente. Ma era curiosa, lo era da secoli, abituata come era, a sapere di tutto, e così il sole nelle ore che le faceva compagnia, le raccontava tutto quello che accadeva.
“Sai” … diceva…” gli alleati da un mese sono entrati a Roma, ormai i tedeschi sono vicini… dì alla gente che stia attenta, dove son passati hanno ammazzato e distrutto… sono sconfitti, rabbiosi, e hanno paura…e quando l’uomo ha paura è capace di tutto. Dì alla gente che non si faccia trovare”.
“… te l’hanno detto? …. Qualche mese fa otto ragazzi sono stati fucilati…qualcuno lo conoscevi anche tu…i più non avevano neanche vent’anni…”
La Torre ascoltava e non rispondeva; ogni tanto scambiava qualche commento con Bonaventura, ma sottovoce, in modo che non la sentisse nessuno.
Bonaventura era la campana della Torre; era di bronzo, grandissima e maestosa ed andava fiera del suo peso e soprattutto della sua voce che, provocata a dovere dal batocchio, si trasformava in un ‘mi’ profondo e maschio.
Anche lei si scaldava alla luce del sole…” Ora mi dovrebbero suonare, ora il metallo è alla temperatura giusta, ora la mia voce è pastosa”. Ed era lei a dare l’ultimo saluto al sole quando scompariva dietro i contrafforti dell’appennino:
‘Buonanotte a domani” … “buonanotte Bonaventura” … rispondeva il sole.
Quel Borgo si trovava lungo una direttrice fondamentale che congiungeva Roma con il nord d’Italia attraverso i passi dell’Appennino, e, dalla primavera del ’44 fu attraversato da colonne militari che risalivano l’Italia portando con sé un esercito in disfatta, che prendeva ciò che poteva e che spesso sfogava contro la popolazione inerme e contro le cose la rabbia verso quello che riteneva il tradimento di un ex alleato.
“L’hai sentiti quei tonfi?”, diceva il Sole… “Hanno fatto saltare il ponte sul Tevere, quello di San Martino sull’Afra, e anche quello della ferrovia…. Vogliono distruggere tutto quello che può essere di sostegno agli alleati che avanzavano da Sud….”
“…Hanno detto che voglion minare le case e le fabbriche, han buttato giù anche la Buitoni e la ciminiera nuova; è caduta a candela, …non si sentirà più la sirena…”
Gli alleati dal canto loro avanzavano verso nord e bombardavano tutti gli obbiettivi strategici, contribuendo a loro volta ad aumentare la distruzione e il deserto di quei luoghi.
“…Ieri m’è andata bene” … disse la torre……” la bomba che è caduta sulla farmacia e sulla casa del Gennaioli è passata a qualche metro da me; m’ha proprio frisato e per la polvere non ho visto niente tutta la giornata…Ma in paese le bombe hanno fatto tanti danni e tanti morti”
“Quando non ci sei tu, la notte, si vedono anche i bagliori dei bombardamenti della città di Arezzo…”
“Si lo sò “… disse il sole… “hanno distrutto tutto, la città non si riconosce per quanto è ridotta male. La ferrovia, le strade, non c’è più niente.”
“Hanno fatto tanti morti…… A Civitella hanno ammazzato tutta la gente, oltre 200 persone. Altrettante a Castelnuovo dei Sabbioni. Ad Arezzo rastrellano le persone e ammazzano anche i ragazzi… Dì alla gente che vedi che se ne vada alla svelta. E se succede qualcosa di grave, tu Bonaventura suona, suona, suona… come hai sempre fatto da tanti anni…”
“.. Buonanotte ora Bonaventura, buonanotte Torre…buonanotte sole.”
Tutti gli Uffici erano chiusi o abbandonati: chiusa la caserma dei Carabinieri, chiusi gli uffici e la banca, la farmacia distrutta dai bombardamenti, la grande fabbrica diventata cenere. Rovine dappertutto. Non c’era rimasto nulla; solo i predoni forestieri e nostrani.
La piazza era grande e, la torre, solitaria al suo centro, disegnava con la sua ombra il passar delle ore e delle stagioni…. “Vedi”, insegnavano i vecchi ai citti…” l’ombra ha raggiunto le finestre del vescovado…, il sole cala all’orizzonte…viene l’autunno” ….
Ma in quei giorni non c’era nessuno; solo qualche cristiano che attraversava di corsa da un cantone all’altro per restare al riparo, nessuno che si arrischiasse ad andare allo scoperto in piazza, e così la torre si sentiva sempre più sola; la sua ombra era restata l’unica compagnia…” meno male che ci sei tu.”.
In quella solitudine era passato anche il giorno del 30 luglio 1944…
“Ormai sono in paese” …disse il Sole…” dicono che vogliono radere al suolo tutta Pieve Santo Stefano per non far passare gli alleati, hanno mandato via tutta la gente, …speriamo non li ammazzino almeno… state attenti…”
“Buonanotte” … disse il sole…” buonanotte” … rispose Bonaventura.
Verso le tre di mattina dal vescovado cominciarono a spargersi intorno alla piazza i seminaristi urlando a quei pochi che erano rimasti in paese……” scappate…scappate…minano la torre…scappate!”.
Un silenzio profondo circondò la zona…Verso le cinque della mattina si avvertì una terribile esplosione; una sassaiola investì quasi tutto il centro storico… una nuvola densa e bianca invase la notte. Quando si dileguò, la torre non c’era più. Bonaventura era rimasta sotto un mucchio di sassi, rotta in tre pezzi e senza più anima né voce.
A mezzogiorno il campanone del Duomo e quello di San Francesco salutarono a loro modo, con i loro rintocchi a morto, l’amico …” addio Bonaventura…”.
Il sole cercò a lungo la torre, la vide a terra nella piazza; si nascose dietro una nuvola e pianse.
Nota personale: rileggendo lo scritto di Beppe anche io, come il sole, mi son nascosto e ho pianto.
*
Si narra che molti anni dopo, un certo “Pizzaiolo”, al secolo Bruschi Giuseppe, alla domanda di un turista tedesco dove fosse la “Torre di Berta” , abbia risposto, drizzando il dito verso la piazza: …...”se què l’ imbecelli dei tu parenti nl’ivon fatta cadere, era lì…..”
Alcune notizie che qui liberamente riportiamo, sono tratte dal libro ‘La Piazza’ di Arduino Brizzi da Sansepolcro. Anche da quel bel libro di ricordi, nasce questa storia. Grazie.